[edizione speciale] Perché Sanremo è Sanremo
La prima serata è un compitino, ma lo abbiamo fatto lo stesso.
Ci sono sapori che non appartengono solo alla bocca, ma alla memoria. Per esempio, il biscotto secco che non è più così secco. Quello che ha perso la sua croccantezza perché è rimasto all’aria, un po’ umido, un po’ stanco. Non sa di buono, ma non sa nemmeno di cattivo. Sa di tempo passato. E nella mia mente ha un nome preciso: visita a casa di una vecchietta.
Perché è quel biscotto lì, quello che la vecchia zia ti offre sempre quando vai a trovarla. Il coperchio della biscottiera si solleva con quel suono inconfondibile di vetro su vetro, un clink ovattato che annuncia un rito. Non è solo un contenitore: è una piccola macchina del tempo.
Come la scatola di latta che un tempo conteneva pasticcini danesi, e che ora conserva un assortimento casuale di cose - forse bottoni, forse vecchie foto, forse altre cose - ma tutte hanno smesso di essere ciò che erano.
Lo prendi, perché sei educata. Lo mangi, perché la zia ti guarda con affetto. E in quel morso c’è tutto: il rumore di un orologio a pendolo, il profumo di un mobile lucido di cera e la sensazione delle dita che scoprono la passamaneria del divano.
Un sapore che non è solo in bocca, ma nell’aria, nei gesti, nel tempo che vira al seppia. E che poi, in un modo o nell’altro, rimane con te.
Questo è per me il Festival di Sanremo. Non posso sottrarmi al rituale, sono vittima dei suoi rimandi e delle sue sinestesie. Nella mia mente vivono stratificati molti Sanremo.
Non lo guardo perché è bello, ma perché me lo offrono. Perché c’è.
Questo è il primo Festival dopo l’era Amadeus, ed è evidente. Al timone c’è Carlo Conti, in perfetto stile Rai: professionale, inappuntabile, con la capacità di far filare tutto liscio come in autostrada se hai il Telepass. Nessun intoppo (a parte l’audio che salta in apertura), nessuna deviazione, zero sorprese.
Un ritorno all’ordine, quasi una restaurazione dopo anni in cui Sanremo è diventato una macchina da meme, un generatore automatico di momenti virali e di polemiche che riempiono le serate e poi i social per settimane.
Se Amadeus ha trasformato il Festival in un evento pop capace di attrarre anche chi normalmente lo snobbava, Conti lo riporta alla sua essenza tradizionale. La sensazione è quella di essere tornati a una formula più sicura, meno sperimentale. Dopo la prima sera, si può anche dire più noiosa.
Una catena di montaggio
Conti opta per una gestione velocissima: no ai siparietti, poche chiacchiere, zero voglia di perdersi in tempi morti e molta di correre perché ci sono 29 cantanti in gara e si deve andare a dormire a una certa. Risultato? Un Festival che scorre via liscio ma senza guizzi. L’unica sporcatura apprezzabile è quell’inquadratura fugace dell’artista un attimo prima di entrare. Interessante, ma a noi piace il colpo di scena, anche quando è prevedibile.
Sul tavolo c’è solo il piatto principale, manca il contorno. Resta solo la musica, ce la dovremmo far bastare?
Benino Gerry Scotti, a cui avrei affidato direttamente la conduzione. Invece è un uomo che soffre su una scaletta strettissima. Brava Antonella Clerici che prepara la pasta all’una di notte perché io so di sugo. Grazie Lorenzo Jovanotti per aver provato a defibrillare la serata. Ti stai trasformando in Gianni Morandi, lo sai vero? Raf, hai 65 anni ma non ci tornano i conti. Purtroppo fai solo un pezzo e ci lasci tutti a desiderare di perdere il Self Control.
Le cose che avremmo voluto skippare
La sigla Tutta l’Italia (chi non salta…)
Il classico momento surreale: il Santo Padre che ci ricorda che la musica può aprire il cuore all’armonia. Io però sono distratta dal bilanciamento del bianco per cui il Papa è uscito magenta. Segue una versione di Imagine che più stucchevole e più volemose bene non si può. E il compitino sulla pace l’abbiamo fatto.
Tamberi che declama come in uno spot ENI sull’energia umana. Avanti col cristo che la processione si ingruma.
Ma parliamo delle canzoni
Un sacco di ballad e amori che si spengono. Non è una novità: gli italiani soffrono per amore e lo cantano. Questo Festival è una raffica di pezzi struggenti, alternati a qualche tormentone pronto per i social e con una spruzzatina di nuovo cantautorato. Tutto si somiglia, ma è ovvio, considerando che i 29 brani sono stati scritti da 11 autori.
Condivido le mie impressioni di getto sulle esibizioni dopo il primo ascolto. Sono commenti di pancia a orecchie fresche, giudizi arbitrari ma onesti, severi ma giusti. Non le menziono tutte, ché sono una cifra.
Le hit che sentiremo fino alla nausea
Gaia: il ghiaccio lo rompe lei ed è perfetta, intonatissima. Il pezzo ha quelle summer vibes di cui hai già voglia a metà febbraio.
Coma Cose: sbloccano un’altra delle loro personalità e Cuoricini è destinata a invadere TikTok nelle prossime 24 ore. Un po’ Ricchi e Poveri, nel senso quasi di plagio.
Willy peyote: Grazie ma no grazie è sempre buona per due reel. Luca Ravenna appare mezzo secondo tra i suoi coristi e restiamo tutti a chiederci se lo abbiamo visto davvero.
The Kolors: Stash in versione Michael Jackson quando lo ordini su Temu. La canzone come sempre balla ma non bella.
Clara: per sempre Crazy J, anche nei brani. Con Febbre fa un po’ le veci di Mahmood.
Le lagne che potevamo risparmiarci
Gabbani: ci ripropone la sua consueta riflessione filosofica sulla vita. Niente di nuovo e lui lo sa, ma sorride con tutti i denti, anche troppi.
Modà: hanno questo vizio di montare i testi con ventiquattro subordinate. Cose tipo: se avessi capito che quella volta saresti stata ti avrei detto come sarebbe andata l’ho scoperto troppo tardi che avrei potuto amarti. Il titolo è Non ti dimentico. Checco io invece sì.
Musica e Meme
Rkomi: sempre in versione Olmo, sceglie un vocabolario ridotto: massimo 5 parole ripetute all’infinito. Come al solito, vocali aperte e chiuse a caso. Tanto finiremo per cantarla lo stesso.
Noemi: Barbie Gran Galà con una spruzzata di Milva. Contrappasso perfetto per Rkomi: lui usa 100 caratteri, lei supera il limite di battute. Canzone bella, ma mi aspettavo di più da una delle mie preferite di sempre.
Irama: Capitan Harlock meets Capitan Findus, con la solita esigenza di farci vedere il petto nudo. Problema: del testo non ho capito una parola. Ritenterò.
Lucio Corsi: Ape Maia meets Kiss. Un look incantevole e inquietante al tempo stesso. Piace a Renato Zero. Il pezzo? BELLISSIMO. Mi pento di non averlo messo in squadra al Fantasanremo.
Rose Villain: sul palco si presenta come un lapis bicolor e porta un pezzo strutturalmente identico a Click Boom! Anche stavolta sono sei canzoni in una. Ma vale?
Elodie: di carta stagnola vestita, anche lei porta una canzone uguale a tutte le altre sue canzoni. Mi annoio un po’.
I più attesi e quotati
Simone Cristicchi: punta sul tema sociale e si sa già che vincerà il premio della critica. Un recitar cantato incerto che non mi è piaciuto al primo ascolto. Il problema è che non so se voglio ascoltarlo la seconda volta. Lo definirei Sanremelenso.
Fedez: per me porta uno dei testi più veri e meglio scritti di questo Sanremo. Sarà che il brano ha urgenza comunicativa e la potenza narrativa di una storia che tutti conoscono, ma la verità arriva come un pugno nello stomaco. Sono un’eretica se lo preferisco a Cristicchi?
Achille Lauro: Vendittiano fino al midollo, anzi fino al sax. Non puoi dire “Villa Borghese” senza plagiare Antonello mio. Ma sento che il pezzo c’è e lo voglio riascoltare.
Giorgia: La cura per me è il classico pezzone sanremese in cui c’è un po’ troppo di Lucio Dalla e della sua Sera dei Miracoli. Lei canta Quante volte ti ho cercato, per quegli occhi quegli occhi che fanno da luna, ma io sento Ma questa sera vola, le sue vele sulle case sono mille lenzuola.
Brunori Sas: o sarebbe meglio dire De Gregori Sas? C’è troppa ispirazione e il paragone non regge.
Tony Effe: non me l’aspettavo la hit da osteria romana buona per La Parolaccia, ma senza turpiloquio. Mannarino non c’è.
Le sorprese (ma non troppo)
Serena Brancale: groove e raffinatezza, finalmente qualcosa di nuovo e di buono. Ho amato tutto. Una delle mie preferite.
Shablo: Fermi tutti che sono arrivati i gangsta con le catenazze d’oro. Una street song sottotono. Sono pazza se dico che mi è piaciuta? Sarà che suona così mid anni ‘90.
Joan Thiele: direttamente dalla colonna sonora di Kill Bill. Bellissimo il pezzo anche se ispirato di brutto a Bang Bang (My Baby Shot me down). Promossa lo stesso.
La classifica della sala stampa, web e tv non riserva nessuna sorpresa. Le prime cinque posizioni provvisorie sembrano già scritte: Giorgia, Brunori, Cristicchi, Achille Lauro e Lucio Corsi.
Finisce così, senza neanche un’incursione degli artigiani della qualità. Il Festival chiude in anticipo e io sbadiglio per la noia, non certo per il sonno. Mi pento di aver bevuto tanti caffè per restare sveglia.
ADORO! Vorrei questo resoconto per ogni serata. Anche perchè vista la (mancanza di) verve penso che andrò a dormire molto prima stasera...
Aspettiamo altre special edition!!