Era un bel po’ che non passava una campagna pubblicitaria davvero succosa da analizzare. Poi è arrivato McDonald’s con Achille Lauro. Un vestito bianco, un voiceover da profeta pop e un Crispy McBacon trasformao in manifesto esistenziale.
Lo spot ha tutto: il personaggio giusto, lo stile cinematografico, il contrasto tra alto e basso, l’equilibrio perfetto tra trash e culto. È una campagna che cammina con disinvoltura su quel filo sottilissimo dove l’estetica del mito incontra il quotidiano, e il gesto ordinario viene trattato come un frammento di epica pop.
Una delle operazioni più raffinate di branding che ho visto ultimamente. Qui sotto ti spiego perché.
(Oppure puoi ascoltare questo podcast generato con l’Ai di Notebook LM di Google, prendendo il mio articolo come fonte).
Il ritorno dell’originale
Negli ultimi anni McDonald’s — soprattutto in Italia — ha spinto sull’acceleratore dell’invenzione: mille varianti di gusto, operazioni crossover con chef e influencer, menu stagionali dai nomi sempre più ambiziosi.
Il Crispy McBacon non è una novità. È una certezza. Quello che ordinavi da ragazzə, quello che ti ricordava chi eri prima che arrivassero le edizioni limitate, i pani ai cereali, le salse gourmet, le collaborazioni d’autore.
Ma in questa campagna non c’è un ritorno nostalgico. C’è una forte affermazione di identità. Quel panino lì smette di essere comfort food e diventa costume.
Non si fa bello, non si reinventa, non cambia una virgola.
Non cerca più di piacere a tutti: esiste, punto.
La scelta di Lauro non è casuale: la sua estetica è fatta di eccesso calcolato, citazioni glam, contrasti iconici. E attorno a lui si muove un’estetica iper-costruita, teatrale, slow motion, notturna, cinematografica.
Lauro sfiora il Crispy McBacon come se fosse un oggetto tra il sacro e il profano.
McDonald’s gioca sul paradosso: rendere culto ciò che è sempre stato di massa. Insomma non ci stanno vendendo un panino. Stanno restaurando un’icona.
C’è Lauro, vestito di tutto punto — come se fosse appena fuggito dal Met Gala o sceso dal palco dopo un concerto — che cammina nella notte e entra in un McDonald’s. Forse è quel il momento in cui il corpo ti chiede qualcosa di concreto, è quel gesto semplice che arriva dopo l’eccesso, dopo il ruolo, dopo la performance. Non è solo fame, non è solo abitudine. È il rituale di una ricompensa.
Insieme a lui, altri personaggi della notte. Ragazzi per strada che fanno tardi, amici che ridono sul marciapiede, presenze sfocate che si muovono nella città che non vuole dormire.
Lo spot si muove continuamente tra coppie oppositive, che generano tensione simbolica: lusso estetico e fast food. Alta cultura e cultura pop. Originalità e ripetizione. Istinto e prodotto. La coabitazione del sublime e dell’ordinario.
Varrebbe la pena analizzare tutto — luci, atmosfere, musica - ma mi concentrerò sulle parole. Perché la potenza narrativa di questo spot non è solo visiva, è linguistica. Il voiceover di Achille Lauro è il cuore semiotico dello spot: un piccolo monologo poetico che sembra uscito da un reading teatrale.
“Chi decide cos’è un must?
Dove si crea ciò che resta?
Su un marciapiede, da un errore, dalla fame?
L’originale non sa di essere originale. È incosciente.
Un’icona non nasce icona.
Sono gli altri a eleggere un must.
Siamo noi.
Cortesemente, un Crispy McBacon.”
Scomponiamolo frase per frase, isolando le stratificazioni di senso.
“Chi decide cos’è un must?”
Livello denotativo: domanda retorica.
Livello connotativo: questa apertura scardina il concetto di tendenza imposta dall’alto e apre il campo alla democratizzazione dello stile. Si mette in discussione l’autorità culturale. Implicitamente: chi ha il potere di definire cosa vale e cosa no?
“Dove si crea ciò che resta?”
Questa frase introduce il concetto di memoria culturale.
Non si parla più solo di successo momentaneo, ma di permanenza, di eredità simbolica.
L’uso del verbo “resta” suggerisce un contrasto con il flusso dell’effimero: ciò che sopravvive, ciò che resta nella mente e nei comportamenti collettivi
“Su un marciapiede, da un errore, dalla fame?”
Qui il testo abbandona il tono astratto e compie una discesa nel concreto, nei luoghi “bassi” e vitali della cultura.
Il Marciapiede evoca la strada, il margine, l’informalità urbana. L’Errore introduce l’idea che l’iconicità possa nascere da deviazioni, da imperfezioni non previste. La Fame è il fulcro semantico: è una parola che parla al corpo, ma anche al desiderio. E in questo contesto ha una doppia funzione:
– metaforica, come urgenza creativa o culturale
– letterale, perché indirettamente si sta parlando di un panino.
Questo passaggio rafforza l’idea che l’icona non è sempre frutto di un progetto razionale o patinato, ma può emergere da una combinazione di impulso, bisogno e contesto reale. Funziona perché è anche una auto-citazione di Lauro, che spesso si è raccontato come figlio della strada, dell’errore e della fame.
“L’originale non sa di essere originale. È incosciente.”
Questo passaggio capovolge l’idea di autenticità: non è mai costruita, è sempre retroattiva. L’icona non si progetta: accade. Di nuovo qui Lauro si cita (“Incoscienti giovani”) e parla anche di sé: la sua eccentricità non è posa, è essenza. Così come il Crispy Mc Bacon è iconico senza voler essere cool.
“Un’icona non nasce icona. Sono gli altri a eleggere un must. Siamo noi.”
Il testo si sposta su un piano collettivo. L’icona non si autodichiara: viene elevata da chi la osserva. Il potere è redistribuito. Il panino diventa simbolo perché qualcuno lo riconosce come tale. Qui si chiude la riflessione avviata nella prima frase: il gusto è una costruzione sociale.
“Siamo noi” significa che anche tu, che stai guardando, sei parte del processo simbolico. Il panino diventa tuo perché sei tu a farlo esistere come icona.
Il Crispy McBacon è il must perché ci siamo già messi d’accordo. Il brand lo offre, Lauro lo consacra, il pubblico lo riconosce. La decisione è presa, ed è collettiva.
Dal punto di vista semiotico, è una strategia di dereferenzializzazione: il brand finge di sottrarsi al discorso pubblicitario (“non siamo qui per dirti cos’è cool”), ma lo fa esercitando comunque una funzione di consacrazione.
“Cortesemente, un Crispy McBacon.”
Dopo la filosofia, il gesto. Dopo il manifesto, il morso.
L’atto finale – ordinare un panino – è lasciato sapientemente per ultimo, come gesto conclusivo e rivelatore.
Il registro si fa gentile, composto, quasi liturgico.
Una frase semplice, ma calibrata al millimetro. Ed è proprio qui che accade qualcosa di potente: un’azione meccanica, essenziale e ripetitiva come ordinare al bancone viene elevata a rito.
In quel cortesemente c’è tutta l’ambiguità dello spot: è il ribelle che chiede, con grazia disarmante, il panino che tutti conoscono.
È la sacralizzazione dell’oggetto attraverso il codice della semplicità.
Il voiceover costruisce una narrazione dove il panino diventa oggetto mitologico, consacrato non dal brand ma da chi lo mangia. Questa è una chiave fondamentale nel food branding contemporaneo: ogni scelta di consumo è una narrazione abbreviata di sé.
Achille Lauro è il tramite: profeta pop che eleva l’ordinario a culto. E McDonald’s si posiziona, di nuovo, come marchio che intercetta i codici del momento, portando l’underground nel mainstream senza snaturarlo.
Prevedo un picco di ordini al banco. Cortesemente, un Crispy MacBacon, anche se si fa prima col totem.
Moda, musica & food.
La campagna prosegue su altri canali, e prende corpo — letteralmente — in una capsule collection firmata da Achille Lauro: un trench, una giacca, due t-shirt e biglietti per il concerto. Tutti elementi che si possono ottenere partecipando a un concorso legato all’acquisto del Menu Crispy McBacon.
È un passaggio di stato interessante: il panino diventa oggetto culturale, poi oggetto estetico, poi oggetto da indossare. In quel gesto — compra un panino, vinci un capo — si chiude il cerchio del marketing contemporaneo: quello in cui ogni consumo è (anche) un’affiliazione identitaria.
Questa mossa inserisce McDonald’s nel linguaggio della limited edition, tipico del fashion marketing e della comunicazione che si nutre di hype. Il panino diventa merchandise. Il merchandise diventa status symbol.
Insomma, un case study di interessante contaminazione. Non solo pubblicità ma storytelling ben distribuito, in cui ogni punto di contatto contribuisce alla costruzione di un immaginario aspirazionale.
Nicolò De Devitiis, conduttore televisivo, ha percorso l’Italia con una missione: trovare qualcuno che non avesse mai sentito parlare dell’intramontabile panino.
Il taglio è perfetto per i social, ed è interessante che le risposte delle persone alla street interview siano diventati poi i i titoli per la campagna copyAd in cui il Crispy viene paragonato ogni volta ad altre grandi icone pop.
A Trieste ho intercettato questa :)
Cosa ne pensate di questa campagna?
Vi ha colpito, vi convince? Vi è piaciuta l’analisi?
Ma soprattutto, vi è venuta voglia di un Crispy McBacon?